giovedì 22 ottobre 2009

Appunti Latino

Fedro

[La critica della società] Non si può escludere la possibilità che Fedro, così come altri letterati suoi contemporanei, sia stato negativamente influenzato dalla situazione storica della società romana nell'età giulio-claudia. I tradizionali valori repubblicani erano entrati in crisi in seguito all'affermarsi di una monarchia di carattere dispotico, assecondata da cortigiani, spesso di umili origini come i potenti liberti imperiali, assurti a posizioni di prestigio grazie all'adulazione e al servilismo. In quest'ottica va forse letto l'aneddoto di Tiberio e lo schiavo servizievole (—1 T7), lucida satira di un'intera classe di rampanti faccendieri, pronti persino a coprirsi di ridicolo pur di farsi notare dai potenti. E sempre in questa prospettiva va letto il vivace dialogo fra il lupo magro e il cane pasciuto (-4 T5), nei quali alcuni studiosi hanno voluto vedere, così come in altre favole, dei puntuali riferimenti autobiografici. Se il cane lustro e ben tenuto, ma con il collo segnato dalla catena, altri non è che l'intellettuale
di corte, pronto a tutto pur di mangiare gli avanzi della mensa del signore, il lupo emaciato dalla fame è il nostro poeta, che rifiuta ogni compromesso per conservare la sua dulcis libertas.

[il buon senso, unica via di salvezza] In un mondo così spietato, unica via di salvezza è l'uso del buon senso (sensus communis: 1, 7, v. 4), un misto di prudenza, astuzia e intelligenza, che si può acuire servendosi degli esempi (exempla) scaturiti dalle esperienze accumulate dalle generazioni precedenti. Ed è proprio questo uno degli intenti del poeta: istruire, fornire consigli pratici ed esortare alla prudenza, attraverso lo strumento della "morale". In Fedro essa spesso introduce la narrazione, per preparare il lettore a meglio cogliere il valore allegorico dell'esempio, a differenza di quanto accade in Esopo, che per lo più la colloca in chiusura.
Visione pessimistica] Si tratta di una visione del mondo intrisa di amarezza e pessimismo, senza alcuna prospettiva di miglioramento o di riscatto: il debole sarà sempre vittima del più forte e anche i mutamenti politici più radicali non avranno alcuna influenza, positiva o negativa che sia, sulla vita degli umili (—. T4). Anzi, i cambiamenti sono spesso pericolosi, come dimostrano le disavventure pa-
tite dal corvo che indossa le penne del pavone T2) o dalle rane, che, alla ricerca di un re capace,
incappano in un crudele tiranno (1, 2).
[La favola, voce degli emarginati] Nel prologo del III libro (vv. 33-37), Fedro rivendica agli schiavi l'invenzione della favola: essa era l'unico modo per esporre liberamente il proprio pensiero, senza incappare nell'ira dei potenti, grazie alla copertura offerta dall'allegoria. La favola, secondo la concezione di Fedro, sarebbe quindi la «voce di chi non ha voce» (I. Lana), uno strumento attraverso il quale gli emarginati esprimono la rabbia impotente, la paziente insofferenza, il dolore inascoltato.

il lupo e lagnello, e forse la piu celebre favola di fedro, in essa, il poeta, con grande efficacia, espone la sua amara visione di una realta in cui i piu forti sono inesorabilmente destinati a vincere e ad avere il sopravvento,ma ottengono pure il conforto della legalita, mentre ai piu deboli non resta che la sconsolata rassegnazione.

Lucrezio

Una delle accuse più comuni lanciate contro la dottrina di Epicuro era quella di empietà, ma Lucre-_1 dimostra, nel passo che si riporta, che empia è la religione tradizionale che, imponendo agli uomo ii
una timorosa soggezione agli dèi, li spinse ad azioni scellerate, come il sacrificio della vergine Ifigenia.immolata dal padre ad Artemide,perché gli dèi concedessero vento propizio alla flotta greca e


Il passo è dominato da un forte accento polemico contro la superstizione che si è resa colpevole di orrendi misfatti, quale il sacrificio della figlia da parte del padre, senza una ragione plausibile. Infatti, gli dèi, nel loro stato di felicità, non si interessano delle vicende umane, quindi il sacrificio di Ifigenia non poteva in alcun modo far convergere la protezione degli dèi sulla flotta greca in partenza per Troia. È solo un aberrante delitto quello che si commise sulla giovane.
In sede stilistica, lo sdegno del poeta si manifesta mediante il sarcasmo: la vergognosa impresa (aram / Iphianassai turparunt sanguine foede) è compiuta dai più nobili rappresentanti della Grecia (ductores Danaum delecti, prima virorum), che si dimostrano, in tal modo, tutt'altro che eroi, mentre gli uomini normali, i non-eroi, capiscono l'orrore e versano lacrime (lacrimas effundere).
L'ampio periodo che segue (vv. 87-92), descrive i preparativi del sacrificio dal punto di vista di Ifigenia che si rende conto gradualmente (sensit) della minaccia incombente. II poeta si sofferma, dapprima, sul contrasto tra la fanciulla sposa e la fanciulla vittima: questa è davanti all'altare, ma non per esservi condotta come sposa. L'andamento ipotattico del periodo dà alla scena un tono in crescendo che si spegne all'improvviso: Ifigenia muta metu terram... petebat, in cui l'allitterazione evidenzia il terrore che paralizza la giovane.
Dopo i due versi patetici (vv. 93-94), in cui l'aggettivo miserae sottolinea la commiserazione dei narratore per quanto sta accadendo alla ragazza – la cui primogenitura accentua l'empietà di Agamennone –, si ritorna all'atteggiamento di sdegno del poeta attraverso la contrapposizione tra la cerimonia nunziale, a cui la giovane avrebbe avuto diritto (nubendi tempore in ipso: v. 98) e a cui pensava di essere guidata (come le aveva fatto credere il padre), e la cerimonia dei sacrificio.
Varie sono le allitterazioni presenti negli ultimi versi: sollemnL.. sacrorum; perfecto posset, claro comitari; mactatu maesta; ìefix faustusque; ossimoro allitterante: casta inceste. L'espressione felix faustusque fa parte del linguaggio formulare usato dai magistrati e dai sacerdoti romani per chiedere agli dèi aiuto per le loro imprese: la presenza di quest'espressione in un contesto sarcastico evidenzia che Lucrezio condanna non solo l'esempio di Ifigenia desunto dalla mitologia, ma anche la religione romana che, nei tempi antichi, faceva ricorso ai sacrifici umani.
L'episodio è dominato da un forte impatto emotivo che raggiunge il punto più elevato nei w. 95-100, come è dimostrato dal lessico: virgineos... comptus, maestum... parentem, lacrimas effundere, muta metu, genibus summissa, miserae, tremibunda, Hymenaeo, casta inceste, nubendi tempore in ipso, hostia maesta.
Alla realizzazione del pathos delle scene contribuiscono le figure retoriche, come iperbati, anastrofi ed enjambements, nonché l'aspetto metrico, come la sequenza dei vv. 96-97:
deductast, // non ut // sollemni / more sacrorum (cesure semiternaria + semiquinaria + dieresi bucolica);
perfecto // posset // claro / comitar(i) Hymenaeo (cesure semiternaria + semiquinaria + semisettenaria).
Questo passo si trova nel primo libro del De Rerum Natura, dopo l’elogio ad Epicuro. Lucrezio condanna e critica la superstizione che, secondo il suo parere, porta a commettere azioni empie e scellerate. Questo passo, grazie a molte immagini e strumenti retorici, è molto solenne e di intensità tragica e patetica elevata. Il popolo che piange alla vista della paurosa fanciulla; Ifigenia che, terrorizzata, cade a terra sulle ginocchia; il sangue di Ifigenia che macchia l’altare di Diana; il padre mesto di fronte all’altare; Ifigenia tremante e triste poiché comprende che dovrà essere sacrificata; il suo sacrificio proprio nell’età delle nozze; l’indifferenza del padre che lascia cadere vittima sua figlia: queste sono in sintesi le immagini che colpiscono maggiormente in questo passo e conferiscono al testo solennità e intensità tragica e patetica.
Lucrezio usa anche molti strumenti retorici. Dal verso 84 al verso 86 usa un anastrofe, cioè un inversione: mette prima il complemento oggetto per mostrare subito qual è stata l’azione scellerata e solo alla fine inserisce il colpevole di questo fatto, cioè il soggetto. Sempre al verso 86 c’è un ironia, cioè i capi scelti dei Danai, il fiore degli eroi, commettono un azione tanto atroce e tanto vergognosa. Al verso 89-90 c’è un polisindeto (et…et…)nel quale a poco a poco Ifigenia si rende conto di quello che sta accadendo: prima vede il padre mesto, poi i ministri nascondere il coltello e infine il popolo piangere. Al verso 90 Lucrezio usa una metonimia per indica con ferrum il coltello del sacrificio. Al verso 92 si trova una paronomasia (muta metu), che, con suoni simili ed aspri, crea un immagine di timore. Al verso 94, per sottolineare l’importanza del concetto, Lucrezio usa una perifrasi per dire che Ifigenia è la primogenita del re. Ai versi 95-96 con un semplice enjambement, il poeta cerca di creare un momento di suspence, prima che Ifigenia sia condotta agli altari. Al verso 98 con un ossimoro (casta inceste), Lucrezio condanna l’atto superstizioso che va contro natura: Ifigenia innocente e casta sta per essere sacrificata impuramente (inceste), cioè per una causa ripugnante. Infine al verso 100 per rimarcare lo scopo finale del sacrifico di Ifigenia, il poeta descrive la partenza della flotta con un endiadi (felix faustusque).
Lucrezio condanna la superstizione, chiamata religio, poiché si scaglia soprattutto sui più deboli, che non riescono a reagire e si lasciano trasportare da queste infondate credenze. Lucrezio spiega che intorno a lui scorgeva un’umanità cieca e dolente, vittima di paure e soggetta alle terribili predizioni di profeti di sventura. Il poeta cerca di opporsi a queste e per far ciò usa i lucida carmina, per squarciare le tenebre dell’ignoranza e far conoscere a tutti gli uomini la reale ed effettiva verità.
Lucrezio riporta l’esempio più significativo e più importante di superstizione: il sacrificio di Ifigenia. Questo mito è raccontato attraverso gli occhi della disgraziata fanciulla, che crede di andare a nozze e invece va incontro alla morte: domina la compassione per la vittima, ma soprattutto l’orrore per un misfatto che colpisce la famiglia spezzando i legami di sangue. Il padre Agamennone non è solo accecato dalla superstizione, ma è anche vittima di un malinteso senso del dovere, poiché, in nome della ragione di stato (la lieta partenza della flotta) non riesce ad ascoltare le ragioni individuali e così non si oppone al sacrificio della figlia, sua primogenita.
-
umana felicità Il mondo, per Lucrezio, non è stato fatto per gli uomini: la terra ha molte parti che non sono abitabili e quel poco di essa in cui si può vivere, oppone grandi ostacoli che possono essere superati solo con gravi fatiche e con una lotta continua contro la natura avara e invidiosa. Quest'ultima è vista come la matrigna che, mentre all'uomo nega tutto, ai pecudes armenta feraeque elargisce generosamente quanto loro necessita. Sono versi di cupo pessimismo nel quale domina l'assoluta certezza dell'infelicità dell'uomo.
Questa indifferenza della natura nei riguardi dell'uomo è la logica conseguenza del modo in cui Lucrezio e gli epicurei intendono gli dèi. Questi, infatti, risiedono negli intermundia, dove vivono la loro vita beata, incuranti degli affari degli uomini, e non potrebbe essere diversamente, poiché, se fossero solleciti nel destino dell'uomo, non sarebbero più dèi.
La polemica di Lucrezio è rivolta contro gli stoici, per i quali il mondo sarebbe stato creato solo in funzione dell'uomo e pertanto la terra dovrebbe considerarsi il centro dell'universo. E una tesi, quella di Lucrezio, che si contrappone anche a quanto Cicerone afferma in De nat. deorum, 2,62,154: "Il mondo stesso è stato creato per gli dèi e per gli uomini, e tutto ciò che vi è in esso, è stato approntato e ritrovato a vantaggio o degli uomini".Il di Lucrezio sarebbe in contrasto con il tradizionale ottimismo di Epicuro. Ma è stato dimostrato (E. Big-none) che la dottrina esposta nel De rerum natura rispecchia fedelmente quella di Epicuro, perché la teoria della culpa naturae non è assente in L'pi(uro, il quale fu un'anima "conscia del dolore del mondo e della miseria della vita dell'umanità". Anche per Epicuro il mondo è pieno d'impeiiiezIonI, ma di questo male l'atomo può riuscire vittorioso con la filosofia.

Seneca

[i primi anni] Lucio Anneo Seneca nacque a Còrdova, in Spagna, intorno al 5 a.C., secondo figl di Lucio Anneo Seneca Padre (cfr. pag. 443) e della moglie Elvia. Trasferitosi con la famiglia a Roma poté dedicarsi agli studi retorico-letterari e soprattutto alla filosofia, finché, verso il 19 d.C., si dcvette recare per ragioni di salute in Egitto, dove rimase più di 10 anni. Tornato a Roma, attese prZbabilmente la morte di Tiberio (37 d.C.) per iniziare la carriera politica, rivestendo la questura (ncè certo in quale anno) e dedicandosi sia al mestiere di avvocato, con immediato successo, sia all'atività letteraria (la Consolatio ad Marciam, la più antica opera pervenutaci, è anteriore al 41).
[L'esilio] Le ambizioni politiche di Seneca subirono una battuta di arresto nel 41, quando egl
coinvolto in uno scandalo messo a frutto da Messalina, prima moglie del nuovo imperatore Clauc per liberarsi di Giulia Livilla, sorella del defunto Caligola. A Seneca fu comminato l'esilio in Corsica isola inospitale e selvaggia, dove rimase per nove anni. Nel 48, tuttavia, Claudio fece uccidere _a prima moglie e sposò la nipote Agrippina Minore, sorella di Giulia Livilla: la situazione a corte m--: completamente.
[I Dialogi] Un prezioso codice scritto a Montecassino nell'XI secolo ed ora a Milano, ha presevato, sotto il titolo di Dialogorum libri, una raccolta di dieci trattati morali, la cui data di composizio--? è in alcuni casi assai dibattuta. Si tratta del De providentia, del De constantia sapientis, del De -a (in tre libri), scritto tra il 41 ed il 52, della Consolatio ad Marciam (probabilmente del 37), del De vita beata, risalente al periodo neroniano, del De otio, forse brevitate vitae (anni 49-55), della Consolatio ad Polybium e della Consolatio ad Helviam, scritte queste durante l'esilio in Corsica. Privi dell'impianto dialogico della tradizione platonica e cicero-iana, si rifanno piuttosto alla diàtriba cinico-stoica, di cui mantengono la vivacità colloquiale e il cotta e risposta" con il dedicatario o più spesso un interlocutore fittizio (da qui, probabilmente, titolo di Dialogi).

[i primi anni] Lucio Anneo Seneca nacque a Còrdova, in Spagna, intorno al 5 a.C., secondo figl di Lucio Anneo Seneca Padre (cfr. pag. 443) e della moglie Elvia. Trasferitosi con la famiglia a Roma poté dedicarsi agli studi retorico-letterari e soprattutto alla filosofia, finché, verso il 19 d.C., si dcvette recare per ragioni di salute in Egitto, dove rimase più di 10 anni. Tornato a Roma, attese prZbabilmente la morte di Tiberio (37 d.C.) per iniziare la carriera politica, rivestendo la questura (ncè certo in quale anno) e dedicandosi sia al mestiere di avvocato, con immediato successo, sia all'atività letteraria (la Consolatio ad Marciam, la più antica opera pervenutaci, è anteriore al 41).
[L'esilio] Le ambizioni politiche di Seneca subirono una battuta di arresto nel 41, quando egl
coinvolto in uno scandalo messo a frutto da Messalina, prima moglie del nuovo imperatore Clauc per liberarsi di Giulia Livilla, sorella del defunto Caligola. A Seneca fu comminato l'esilio in Corsica isola inospitale e selvaggia, dove rimase per nove anni. Nel 48, tuttavia, Claudio fece uccidere _a prima moglie e sposò la nipote Agrippina Minore, sorella di Giulia Livilla: la situazione a corte m--: completamente.
[Seneca e Nerone] Seneca fu richiamato nel 49 e ricevette l'incarico di precettore del giova-=- Nerone, figlio di primo letto di Agrippina, il quale, alla morte del padre adottivo Claudio (54), fu - --- minato imperatore, appena diciassettenne. Per cinque felici anni (54-59), Seneca ed il prefetto ce pretorio, Afranio Burro, tennero di fatto le redini del potere, mediando abilmente tra le ambizicdel giovane principe, le esigenze della politica e l'invadenza di Agrippina. Con il passare degli a—tuttavia, non fu più possibile arginare il carattere crudele e dispotico di Nerone, che nel 59 giu-se ad uccidere la madre; nel 62, morto Burro per cause naturali, Seneca si rese conto che la sua co _aborazione con il principe era diventata impossibile ed ottenne il permesso di ritirarsi a vita priva-_a
[Gli ultimi anni e la morte] Libero dalle ipocrisie della vita di corte, Seneca concentrò i suoi r—_ ressi sul perfezionamento morale e sull'attività letteraria, componendo, dal 62 al 65, un gran nume-:) di opere (non tutte giunte sino a noi), tra cui il suo capolavoro, le Epistulae ad Lucilium. La scope-3 della congiura dei Pisoni nel 65 (cfr. pag. 450), diede a Nerone il pretesto per eliminare anche 5a neca, scomodo testimone delle sue nefandezze: il magistrale racconto di Tacito (Annales XV, 61 -t-' cfr. Inter litteras, pag. 495) conserva l'immagine nobilissima di un uomo che affronta la morte can estrema dignità e serenità, attorniato da pochi amici e dalla giovane moglie Paolina.

Uso del tempo
In tre momenti si divide la vita: passato. presente. futuro. Di essi quello che stiamo vivendo è breve. quello che vivremo dubbio. quello che abbiamo vissuto certo.
Il passato dunque soltanto ci appartiene o, meglio, appartiene ai saggi. La maggior parte degli uomini, quelli più affaccendati, considerano solo il presente che «è brevissimo al punto di sembrare nullo a taluni: poiché è sempre in moto, scorre e precipita» (De brev. v. 10, 6). La constatazione che la vita è breve perché l'uomo la rende tale, non trovando il tempo di dedicarsi a se stesso, tutto preso da passioni, vizi e preoccupazioni, è un Leitmotiv nell'opera di Seneca.
Già nella Consolatio ad Marciam (10, 4) il giovane filosofo sentenziava: Rapina rerum omnium est: miseri, nescitis in fuga vivere («La rapina è universale: infelici, non sapete vivere in fuga»). Ma in quelle parole si sentiva soprattutto la consapevolezza della caducità di ogni cosa umana e dell'incalzare della morte. Nel De brevitate vitae e in tanti altri passi, specialmente delle Epistulae ad Lucilium, predomina la preoccupazione di sprecare o il rammarico di aver sprecato tanto tempo utile per se stessi nei vari impegni mondani o politici, anche in vani esercizi intellettuali. II saggio deve impiegare ogni suo attimo di vita per il proprio perfezionamento morale: di lì il continuo incitamento a Lucilio a dedicarsi a sé.
Sin dalla prima riga delle Epistulae leggiamo: vindica te tibi, «rivendicati a te stesso», cioè sottraiti al possesso altrui, alla subordinazione agli interessi altrui. È evidente che questo non significa chiudersi in egoistico isolamento, ma rifiutare i condizionamenti effimeri del mondo che ci circonda e delle nostre passioni, per avviarci alla saggezza; il che non ci impedirà, anzi ci indurrà a giovare ad altri (sempre nel senso del perfezionamento morale).


Nessun commento:

Posta un commento

Cerca nel blog