domenica 27 settembre 2009

Che cos’è l’Illuminismo


Immanuel Kant ( Testo Integrale )

L' illuminismo é l' uscita dell' uomo dallo stato di minorità che egli deve
imputare a se stesso. Minorità é l' incapacità di servirsi del proprio
intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi é questa minorità
se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di
decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati
da un altro. Sapere aude ! Abbi il coraggio di servirti della tua propria
intelligenza ! - é dunque il motto dell' illuminismo. La pigrizia e la viltà
sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da
lungo tempo affrancati dall' eterodistinzione ( naturaliter maiorennes ),
tuttavia rimangono volentieri minorenni per l' intera vita; e per cui riesce
tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. E' tanto comodo essere minorenni
! Se ho un libro che pensa per me,un direttore spirituale che ha coscienza per
me, un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene, ecc., io non ho più
bisogno di darmi pensiero da me. Purchè io sia in grado di pagare, non ho
bisogno di pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione. A far
sì che la stragrande maggioranza degli uomini ( e con essi tutto il bel sesso )
ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltrechè difficile, anche molto
pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza
l' alta sorveglianza sopra costoro. Dopo averli in un primo tempo istupiditi
come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito che queste
pacifiche creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui
le hanno imprigionate, in un secondo tempo mostrano ad esse il pericolo che le
minaccia qualora tentassero di camminare da sole. Ora questo pericolo non é poi
così grande come loro si fa credere , poichè a prezzo di qualche caduta essi
alla fine imparerebbero a camminare: ma un esempio di questo genere rende
comunque paurosi e di solito distoglie la gente da ogni ulteriore tentativo. E'
dunque difficile per ogni singolo uomo districarsi dalla minorità che per lui é
diventata pressochè una seconda natura. E' giunto perfino ad amarla, e
attualmente é davvero incapace di servirsi del suo proprio intelletto, non
essendogli mai stato consentito di metterlo alla prova. Regole e formule, questi
strumenti meccanici di un uso razionale o piuttosto di un abuso delle sue
disposizioni naturali, sono i ceppi di una eterna minorità. Anche chi da essi
riuscisse a sciogliersi, non farebbe che un salto malsicuro sia pure sopra i più
angusti fossati, poichè non sarebbe allenato a siffatti liberi movimenti. Quindi
solo pochi sono riusciti, con l' educazione del proprio spirito, a districarsi
dalla minorità e tuttavia a camminare con passo sicuro. Che invece un pubblico
si illumini da sè é cosa maggiormente possibile; e anzi, se gli si lascia la
libertà, é quasi inevitabile. In tal caso infatti si troveranno sempre, perfino
fra i tutori ufficiali della grande folla, alcuni liberi pensatori che, dopo
aver scosso da sè il giogo della tutela, diffonderanno il sentimento della stima
razionale del proprio valore e della vocazione di ogni uomo a pensare da sè. V'
é a riguardo il fenomeno singolare che il pubblico, il quale in un primo tempo é
stato posto da costoro sotto quel giogo, li obbliga poi esso stesso a rimanervi,
non appena abbiano a ciò istigato quelli tra i suoi tutori che fossero essi
stessi incapaci di ogni lume. Seminare pregiudizi é tanto pericoloso, proprio
perchè essi finiscono per ricadere sui loro autori o sui predecessori dei loro
autori. Perciò il pubblico può giungere al rischiaramento solo lentamente. Forse
una rivoluzione potrà sì determinare l' affrancamento da un dispotismo personale
e da un' oppressione avida di guadagno o di potere, ma mai una vera riforma del
modo di pensare. Al contrario: nuovi pregiudizi serviranno al pari dei vecchi a
mettere le dande alla gran folla di coloro che non pensano. Senonchè a questo
rischiaramento non occorre altro che la libertà ; e precisamente la più
inoffensiva di tutte le libertà , qyella cioè di fare pubblico uso della propria
ragione in tutti i campi . Ma da tutte le parti odo gridare : ma non ragionate !
L' ufficiale dice : non ragionate , ma fate esercitazioni militari ! L'
intendente di finanza : non raginate , ma pagate ! L' ecclesiastico : non
ragionate , ma credete ! (C' è solo un unico signore al mondo che dice :
ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete , ma obbedite !) Qui v' è ,
dovunque , limitazione della libertà ! Ma quale limitazione è d' ostacolo all'
illuminismo , e quale non lo è , anzi lo favorisce ? Io rispondo : il pubblico
uso della propria ragione deve essere libero in ogni tempo , ed esso solo può
attuare il rischiaramento tra gli uomini ; invece l' uso privato della ragione
può assai di frequente subire strette limitazioni senza che il progresso del
rischiaramento ne venga particolarmente ostacolato . Intendo per uso pubblico
della propria ragione l' uso che uno ne fa, come studioso , davanti all' intero
pubblico dei lettori . Chiamo invece uso privato della ragione quello che ad un
uomo è lecito farne in un certo ufficio o funzione civile di cui egli è
investito . Ora per molte operazioni che attengono all' interesse della comunità
è necessario un certo meccanismo , per cui alcuni membri di essa devono
comportarsi in modo puramente passivo onde mediante un' armonia artificiale il
governo induca costoro a concorrere ai fini comuni o almeno a non contrastarli .
Qui ovviamente non è consentito ragionare , ma si deve obbedire . Ma in quanto
nello stesso tempo questi membri della macchina governativa considerano se
stessi come membri di tutta la comunità e anzi della società cosmopolitica , e
si trovano quindi nella qualità di studiosi che con gli scritti si rivolgono a
un pubblico nel senso proprio della parola , essi possono certamente ragionare
senza ledere con ciò l'attività cui sono adibiti come membri parzialmente
passivi . Così sarebbe assai pernicioso che un ufficiale , cui fu dato un ordine
dal suo superiore , volesse in servizio pubblicamente ragionare sull'
opportunità e utilità di questo ordine : egli deve obbedire . Ma è iniquo
impedirgli in qualità di studioso di fare le sue osservazioni sugli errori
commessi nelle operazioni di guerra e di sottoporle al giudizio del suo pubblico
. Il cittadino non può rifiutarsi di pagare i tributi che gli sono imposti ; e
un biasimo inopportuno di tali imposizioni , quando devono essere da lui
eseguite , può anzi venir punito come uno scandalo (poichè potrebbe indurre a
disubbidienze generali) . Tuttavia costui non agisce contro il dovere del
cittadino se , come studioso manifesta apertamente il suo pensiero sulla
sconvenienza o anche sull' ingiustizia di queste imposizioni . Così un
ecclesiastico é tenuto a insegnare il catechismo agli allievi e alla sua
comunità religiosa secondo il credo della Chiesa da cui dipende , perchè a
questa condizione egli é stato assunto : ma come studioso egli ha piena libertà
e anzi il compito di comunicare al pubblico tutti i pensieri che un esame severo
e benintenzionato gli ha suggerito circa i difetti di quel credo , nonchè le sue
proposte di riforma della religione e della Chiesa . In ciò non v' é nulla di
cui la coscienza possa venir incolpata . Ciò che egli insegna in conseguenza del
suo ufficio , come funzionario della Chiesa , egli infatti lo espone come
qualcosa intorno a cui non ha libertà di insegnare secondo le sue proprie idee ,
ma che ha il compito di insegnare secondo le istruzioni e nel nome di un altro .
Egli dirà : la nostra Chiesa insegna questo e quello , e queste sono le prove di
cui essa si vale . Tutta l' utilità pratica che alla sua comunità religiosa può
derivare , egli dunque la ricaverà da principi che egli stesso non
sottoscriverebbe con piena convinzione , ma al cui insegnamento può comunque
impegnarsi perchè non é affatto impossibile che in essi non si celi qualche
velata verità , e in ogni caso , almeno , non si riscontra in essi nulla che
contraddica alla religione interiore . Se invece credesse di trovarvi qualcosa
che vi contraddica , egli non potrebbe esercitare la sua funzione con coscienza
; dovrebbe dimettersi . L' uso che un insegnante ufficiale fa della propria
ragione davanti alla sua comunità religiosa é dunque solo un uso privato ; e ciò
perchè quella comunità , per quanto grande sia , é sempre soltanto una riunione
domestica ; e sotto questo rapporto egli , come prete , non é libero e non può
neppure esserlo , poichè esegue un incarico che gli viene da altri . Invece come
studioso che parla con gli scritti al pubblico propriamente detto , cioè al
mondo , dunque come ecclesiastico nell' uso pubblico della propria ragione ,
egli gode di una libertà illimitata di valersi della propria ragione e di
parlare in persona propria . Che i tutori del popolo ( nelle cose spirituali )
debbano a loro volta rimanere sempre minorenni , é un' assurdità che tende a
perpetuare le assurdità . Ma una società di ecclesiastici , ad esempio un'
assemblea chiesastica o una venerabile "classe" (come essa si autodefinisce
presso gli olandesi), avrebbe forse il diritto di obbligarsi per giuramento a un
certo credo religioso immutabile , per esercitare in tal modo sopra ciascuno dei
suoi membri , e attraverso essi sul popolo , una tutela continua , e addiritura
per rendere eterna questa tutela ? Io dico che ciò è affatto impossibile . Un
tale contratto , teso a tener lontana l' umanità per sempre da ogni progresso
nel rischiaramento , è irrito e nullo in maniera assoluta , foss' anche che a
sancirlo siano stati il potere sovrano , le Diete imperiali e i più solenni
trattati di pace . Nessuna epoca può collettivamente impegnarsi con giuramento a
porre l' epoca successiva in una condizione che la metta nell' impossibilità di
estendere le sue conoscenze (soprattutto se tanto necessarie) , di liberarsi
dagli errori e in generale di progredire nel rischiaramento . Ciò sarebbe un
crimine contro la natura umana , la cui originaria destinazione consiste proprio
in questo progredire ; e quindi le generazioni successive sono perfettamente
legittimate a respingere quelle convenzioni come non autorizzate ed empie . La
pietra di paragone di tutto ciò che può imporsi come legge a un popolo stà nel
quesito se un popolo possa imporre a se stesso una tale legge . Ciò sarebbe sì
una cosa possibile , per così dire in attesa di una legge migliore e per un
breve tempo determinato , al fine di introdurre un certo ordine , ma purchè nel
frattempo si lasci libero ogni cittadino , soprattutto l' uomo di Chiesa , di
fare sui difetti dell' istituzione vigente le sue osservazioni pubblicamente ,
nella sua qualità di studioso , cioè mediante i suoi scritti ; e ciò mentre l'
ordinamento costituito resterà pur sempre in vigore fino a che le nuvole vedute
in questa materia non abbiano raggiunto nel pubblico tanta diffusione e credito
che i cittadini , con l' unione dei loro voti (anche se non di tutti) , siano in
grado di presentare al vostro sovrano una proposta tesa a proteggere quelle
comunità che fossero d' accordo per un mutamento in meglio della costituzione
religiosa secondo le loro idee , e senza pregiudizio per quelle comunità che
invece intendessero rimanere nell'antica costituzione . Ma concertarsi per
mantenere in vigore , foss' anche per la sola durata della vita di un uomo , una
costituzione religiosa immutabile che nessuno possa pubblicamente porre in
dubbio , e con ciò annullare per così dire una fase cronologica del cammino
dell' umanità verso il suo miglioramento e rendere questa fase sterile e per ciò
stesso forse addirittura dannosa alla posterità , e questo non è assolutamente
lecito . Un uomo può sì per la propria persona , e anche in tal caso solo per un
certo tempo , differire di illuminarsi su ciò che egli stesso è tenuto a sapere
; ma rinunciarvi per sé e più ancora per la posterità , significa violare e
calpestare i sacri diritti dell' umanità . Ora ciò che neppure un popolo può
decidere circa se stesso , lo può ancora meno un monarca circa il popolo ,
infatti il suo prestigio legislativo si fonda precisamente sul fatto che nella
sua volontà egli riassume la volontà generale del popolo . Purchè egli badi che
ogni vero o presunto miglioramento non contrasti con l' ordinamento civile ,
egli non può per il resto che lasciare i suoi sudditi liberi di fare quel che
credono necessario per la salvezza della loro anima . Cio' non lo riguarda
affatto , mentre quel che lo riguarda è di impedire che l' uno ostacoli con la
violenza l' altro nell' attività che costui , con tutti i mezzi che sono in suo
potere , esercita in vista dei propri fini e per soddisfare le proprie esigenze
. Il monarca reca detrimento alla sua stessa maestà se si immischia in queste
cose ritenendo che gli scritti nei quali i suoi sudditi mettono in chiaro le
loro idee siano passibili di controllo da parte del governo : sia ch' egli
faccia ciò invocando il proprio intervento autocratico ed esponendosi al
rimprovero che Caesar non est supra grammaticos , sia , e a maggior ragione , se
egli abbassa il suo potere supremo tanto da sostenere il dispotismo spirituale
di qualche tiranno nel suo Stato contro tutti gli altri suoi sudditi . Se ora si
domanda : viviamo noi attualmente in un' età illuminata ? allora la risposta é :
no , bensì in un' età di illuminismo . Che nella situazione attuale gli uomini
presi in massa siano già in grado , o anche solo possano essere posti in grado
di valersi sicuramente e bene del loro proprio intelletto nelle cose della
religione , senza la guida d' altri , é una condizione da cui siamo ancora molto
lontani . Ma che ad essi , adesso , sia comunque aperto il campo per lavorare ed
emanciparsi verso tale stato , e che gli ostacoli alla diffusione del generale
rischiaramento o all' uscita dalla minorità a loro stessi imputabile a poco a
poco diminuiscano , di ciò noi abbiamo invece segni evidenti . A tale riguardo
quest' età é l' età dell' illuminismo , o il secolo di Federico . Un principe
che non crede indegno di sè dire che considera suo dovere non prescrivere nulla
agli uomini nelle cose di religione , ma lasciare loro in ciò piena libertà , e
che quindi respinge da sè anche il nome orgoglioso della tolleranza , é egli
stesso illuminato e merita dal mondo e dalla posterità riconoscenti di esser
lodato come colui che per primo emancipò il genere umano dalla minorità , almeno
da parte del governo , e lasciò libero ognuno di valersi della sua propria
ragione in tutto ciò che é affare di coscienza . Sotto di lui venerandi
ecclesiastici , senza pregiudizio del loro dovere d' ufficio , possono
liberamente e pubblicamente , in qualità di studiosi , sottoporre all' esame del
mondo i loro giudizi e le loro vedute che qua e là deviano dal credo
tradizionale ; e tanto più può farlo chiunque non é limitato da un dovere d'
ufficio . Questo spirito di libertà si estende anche verso l' esterno , perfino
là dove esso deve lottare contro ostacoli esteriori suscitati da un governo che
fraintende se stesso . Il governo infatti ha comunque davanti agli occhi un
fulgido esempio che mostra che nulla la pace pubblica e la concordia della
comunità hanno da temere dalla libertà . Gli uomini si adoperano da sè per
uscire a poco a poco dalla barbarie , purchè non si ricorra ad artificiosi
strumenti per mantenerli in essa . Ho posto particolarmente nelle cose di
religione il punto culminante del rischiaramento , cioè dall' uscita dell' uomo
dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso ; riguardo alle arti
e alle scienze , infatti , i nostri reggitori non hanno alcun interesse a
esercitare la tutela sopra i loro sudditi . Inoltre la minorità in cose di
religione é fra tutte le forme di minorità la più dannosa ed anche la più
umiliante . Ma il modo di pensare di un sovrano che favorisce quel tipo di
rischiaramento va ancora oltre , poichè egli vede che perfino nei riguardi della
legislazione da lui statuita non si corre pericolo a permettere ai sudditi da
fare uso pubblico della loro ragione e di esporre pubblicamente al mondo le loro
idee sopra un migliore assetto della legislazione stessa , perfino criticando
apertamente quella esistente . Abbiamo in ciò un fulgido esempio , e anche in
ciò nessun monarca ha superato quello che noi veneriamo . Ma é pur vero che solo
chi , illuminato egli stesso , non ha paura delle ombre e contemporaneamente
dispone a garanzia della pubblica pace di un esercito numeroso e ben
disciplinato , può enunciare ciò che invece una repubblica non può arrischiarsi
a dire : ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete ; solamente obbedite
! Si rivela qui uno strano inatteso corso delle cose umane ; come del resto
anche in altri casi , a considerare questo corso in grande , quasi tutto in esso
appare paradossale . Un maggiore grado di libertà civile sembra favorevole alla
libertà dello spirito del popolo , epperò pone ad essa limiti invalicabili ; un
grado minore di libertà civile , al contrario , offre allo spirito lo spazio per
svilupparsi con tutte le sue forze . Se dunque la natura ha sviluppato sotto
questo duro involucro il germe di cui essa prende la più tenera cura , cioè la
tendenza e vocazione al libero pensiero , questa tendenza e vocazione
gradualmente reagisce sul modo di sentire del popolo ( per cui questo , a poco a
poco , diventa sempre più capace della libertà di agire ) , e alla fine
addirittura sui principi del governo il quale trova che é nel proprio vantaggio
trattare l' uomo , che ormai é più che una macchina , in modo conforme alla di
lui dignità .
Königsberg in Prussia , 30 settembre 1784



Immanuel Kant

IMMANUEL KANT

Amici dell’umanità e di ciò che c’è di più santo in essa, accettate pure ciò che vi sembra più degno di fede dopo un esame attento e sincero, sia che si tratti di fatti sia che si tratti di princìpi razionali; ma non contestate alla ragione ciò che fa di essa il bene più alto sulla terra: il privilegio di essere l’ultima pietra di paragone della verità.

Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me.

Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente, fuori del mio orizzonte: io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza.

1. Vita e opere

Immanuel Kant (1724-1804), uno dei maggiori filosofi di tutti i tempi, trascorse quasi interamente la propria esistenza nella città natale, Königsberg, in Prussia orientale (dal 1946 la città ha assunto il nome di Kaliningrad ed è sotto la sovranità russa), prima come studente, poi per diversi anni come precettore presso alcune nobili famiglie prussiane, e infine come docente di logica e di metafisica nell’università della stessa Königsberg. Visse in modo assai semplice e frugale, dedito totalmente all’indagine filosofica e all’insegnamento. E’ interessante notare come nelle sue lezioni, che affascinavano i partecipanti, egli usasse manuali di filosofia piuttosto datati, benché avesse già pubblicato testi di eccezionale originalità e valore, manuali che egli però integrava, arricchendoli, con proprie osservazioni e aggiunte, a mo’ di glosse, sempre assai penetranti e appropriate.

Purtroppo, negli ultimi anni della sua vita, Kant fu vittima di un progressivo decadimento fisico e mentale, che lo ridusse in uno stato pietoso. Aveva perduto la memoria e quasi interamente la vista e la capacità di connettere. Si spense il 12 febbraio 1804; e le sue ultime parole furono: “Es ist gut” (“Sta bene”). Venne sepolto nel duomo di Königsberg. Alla fine del secolo scorso, in occasione di un restauro, fu inciso un epitaffio riportante le celebri parole conclusive della sua Critica della ragion pratica, che costituiscono un felice compendio della filosofia kantiana:

Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me.

Il pensiero kantiano rappresenta, oltre che la sintesi di tutta la filosofia del Settecento, un momento essenziale e paradigmatico del pensiero occidentale nell’età moderna e per la sua portata teoretica (il suo «criticismo» quale attitudine a interrogarsi programmaticamente sulle possibilità, la validità e i limiti di determinate esperienze umane, come la conoscenza o l’azione o il sentimento estetico) e per la sua importanza storica (Kant: l’ultimo degli illuministi o il primo dei romantici?). Tale pensiero suole essere distinto in due fasi: il periodo pre-critico e il periodo critico, di gran lunga il più importante, in quanto caratterizzato dalla redazione e dalla pubblicazione delle tre celebri «critiche kantiane»:

- Critica della ragion pura (Kritik der reinen Vernuft; 1a ed. 1781; 2a ed. riveduta 1787): particolarmente importante, per una corretta interpretazione del pensiero di Kant, la prefazione alla seconda edizione;

- Critica della ragion pratica (Kritik der praktischen Vernuft; 1788);

- Critica del Giudizio (Kritik der Urteilskraft; 1790).

Tra gli scritti «minori» di Kant, che trattano tematiche specifiche o espongono in forma più accessibile parti oscure o più complesse delle tre «Critiche», ricordiamo i seguenti:

- Prolegomeni ad ogni metafisica futura che voglia presentarsi come scienza (1783);

- Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo (1784);

- Fondazione della metafisica dei costumi (1785);

- La religione entro i limiti della sola ragione (1794), opera di ispirazione deistica che procurò a Kant una censura e il divieto di svolgere lezioni sull’argomento. La risposta di Kant a tale provvedimento fu ispirata alla seguente annotazione: “Il ritrattare sarebbe viltà, ma il tacere, in questo caso, è dovere di suddito”;

- Per la pace perpetua (1795), uno scritto di particolare interesse, nel quale viene formulata la previsione che i danni crescenti dei conflitti armati obbligheranno gli stati a sottoporsi a organismi internazionali. L’ideale politico di Kant era una costituzione repubblicana, “fondata in primo luogo sul principio di libertà dei membri di una società, come uomini; in secondo luogo sul principio di indipendenza di tutti, come sudditi; in terzo luogo sulla legge dell’eguaglianza, come cittadini”.

2 . Il «Criticismo» e l’orizzonte storico del pensiero kantiano

Kant, facendo propria la critica di Hume alla metafisica, approda al Criticismo, cioè ad una filosofia critica, che intende individuare preliminarmente le possibilità e i limiti dell’esercizio della ragione umana. Tale «critica» - nel senso di «giudicare», «soppesare» qualcosa da parte della ragione - costituisce il momento iniziale e qualificante dell’indagine kantiana, e si oppone tanto al dogmatismo, che considera la metafisica come scienza per eccellenza, quanto allo scetticismo, che nega radicalmente la possibilità di una scienza universale e necessaria. Il dogmatismo a cui Kant si riferisce è il razionalismo dei grandi sistemi metafisici del Seicento, costruiti da Cartesio, Spinoza e Leibniz, e dal filosofo tedesco del Settecento Christian Wolff. Lo scetticismo è l’esito dell’empirismo di Hume.

Secondo Kant, l’errore del razionalismo è di presupporre un perfetto accordo fra la nostra facoltà conoscitiva e la realtà e quindi di non porre alcun limite alla nostra ragione; l’errore dell’empirismo è di condurre ad una sfiducia nella possibilità delle nostre facoltà razionali di conoscere la realtà scientificamente. Infatti, se tutte le nostre conoscenze derivano dall’esperienza, e ogni esperienza è particolare e determinata, non potremo mai raggiungere nessuna conoscenza necessaria e universale. Ma per quale motivo l’empirismo e il razionalismo sono dottrine errate? Secondo Kant, lo scetticismo è smentito dall’esistenza di due scienze, che, agli occhi del tempo, apparivano necessarie e universali: la matematica e la fisica (di Newton). Contro il dogmatismo Kant mostra il fallimento di ogni tentativo di costruire la metafisica come scienza, cioè come sapere universale e necessario. Esistono sì tanti sistemi metafisici, ma contraddittori e privi dell’evidenza della matematica e della fisica. Kant ritiene che la matematica abbia raggiunto sin dal tempo dei Greci il rango di scienza, mentre la fisica lo abbia raggiunto con Galilei e Newton. La metafisica, invece, è incapace di imporsi come scienza ed è ormai una nobile decaduta:

Vi fu un tempo in cui la metafisica era considerata la regina di tutte le scienze, e, se si prepongono le intenzioni ai fatti, meritava senza dubbio questo nome onorifico per l’importanza del suo oggetto. Ora la moda del tempo è incline a deprezzarla...

Per superare questa situazione paralizzante, Kant intraprende una strada nuova. Il suo criticismo significa l’istituzione di un tribunale davanti al quale sia esaminata la ragione stessa, per deciderne limiti e possibilità, senza alcuna fiducia dogmatica preconcetta e senza alcuna sfiducia scettica. Da questo esame Kant si propone, una volta stabilito il retto uso della ragione, di rispondere criticamente alle questioni filosofiche fondamentali:

1) io, in quanto uomo, cosa posso sapere? (questione gnoseologica);

2) che cosa devo fare? (questione etica);

3) cosa devo sperare? (questione metafisica);

4) che cos'è l'uomo? (questione antropologica).

Come si può notare, l’indagine filosofica kantiana è pienamente iscritta nell’atmosfera culturale di quei tempi, vale a dire dell’Illuminismo, e risente inoltre fortemente di due fenomeni storici tra loro connessi e assai rilevanti: la rivoluzione scientifica e la crisi delle metafisiche tradizionali. Se l’Illuminismo ha portato davanti al tribunale della ragione l’intero universo dell’uomo (la religione, lo stato, la cultura, l’educazione ecc.), Kant porta davanti a detto tribunale della ragione la ragione stessa: prima di occuparsi della conoscenza del mondo esterno, occorre verificare gli ambiti specifici dello strumento stesso del conoscere, cioè della ragione umana.

Kant aderisce al pensiero del proprio tempo e ritiene, a differenza di Hume, che matematica e fisica siano scienze, ovvero siano un sapere fondato, mentre la metafisica deve abbandonare la pretesa di costruirsi come scienza. Nondimeno Kant, sebbene si dichiari “innamorato deluso” della metafisica, si sofferma a lungo sull’anelito perenne e sul desiderio insopprimibile di «metafisica» presenti in ogni uomo:

La ragione umana, anche senza il pungolo della semplice vanità dell’onniscienza, è perpetuamente sospinta da un proprio bisogno verso quei problemi che non possono in nessun modo essere risolti da un uso empirico della ragione... e così in tutti gli uomini una qualche metafisica è sempre esistita e sempre esisterà, appena che la ragione s’innalzi alla speculazione.

Dunque Kant, mentre condivide pienamente lo scetticismo metafisico di Hume, respinge con forza quello scientifico, parimenti sostenuto dal filosofo scozzese. Concretamente, egli cerca allora di stabilire, da un lato, il carattere scientifico della matematica e della fisica e, dall'altro, come la meta­fisica non possa essere considerata una scienza in senso rigoroso, ma soltanto una disposizione naturale, propria dell’uomo.

Ecco allora le tre domande fondamentali, a cui si risponde nella «Critica della ragion pura»:

1. Come è possibile la matematica come scienza?

2. Come è possibile la fisica come scienza?

3. E’ possibile la metafisica come scienza?

Si osservi, che, mentre nel caso delle scienze (matematica e fisica) è sufficiente chiedersi come esse siano possibili, nel caso della metafisica bisogna domandarsi se essa sia possibile come scienza.

Dalla «Prefazione» ai PROLEGOMENI

Mio proposito è persuadere tutti coloro che credono valga la pena di occuparsi di me­tafisica, che è assolutamente necessario sospendere provvisoriamente il loro lavoro e considerare come non avvenuto tutto ciò che finora si è fatto in metafisica, per porre in­nanzi tutto la questione: «se qualcosa come la metafisica sia, in generale, anche soltanto possibile».

Se la metafisica è una scienza, come va che essa non può ottenere, come le altre scien­ze, un universale e durevole consenso? Se non lo è, come mai essa continua a gran­deggiare sotto le sembianze di scienza e tiene a bada l'intelletto umano con speranze che non si spengono mai, ma neppur mai soddisfatte? Sia dunque che si dimostri il suo sapere, o il suo non sapere, si deve una buona volta stabilire qualcosa di sicuro sulla natu­ra di questa pretesa scienza; giacché è impossibile rimanere più a lungo in questa posi­zione di fronte a lei. Sembra quasi ridicolo che, mentre ogni altra scienza progredisce incessantemente, ci si aggiri sempre sullo stesso punto, senza andare avanti di un pas­so, proprio in questa, che pur vuol essere la saggezza stessa, il cui oracolo ogni uomo in­terroga. Anche i suoi seguaci si son di molto diradati, e non si vede che quelli che si sen­tono abbastanza forti per risplendere in altre scienze vogliano arrischiare la loro fama in questa, dove ognuno, per quanto ignorante in tutte le altre cose, si arroga di pro­nunziare un giudizio definitivo, giacché in questo campo, infatti, non v’è ancora misu­ra né peso sicuro per distinguere la profondità dalla chiacchierata superficiale.

Non è però cosa tanto strana, che dopo un lungo affaticarsi intorno ad una scienza, quando del cammino già fatto in essa si pensano meraviglie, qualcuno si lasci venire in mente di domandare se e come in generale una tale scienza sia possibile. Giacché la ra­gione umana è così portata alla costruzione, che più volte la già costruita torre ha poi nuovamente abbattuta, per vedere di qual natura mai ne fossero fatte le fondamenta. Non è mai troppo tardi per diventare ragionevoli e saggi; ma, se l'accorgimento arriva tardi, diviene sempre più difficile portarlo in atto.

Domandare se una scienza sia possibile presuppone metterne in dubbio la realtà. Un tal dubbio però offende chiunque per avventura abbia l'intero suo tesoro fatto di tali presunti gioielli; e però chi tal dubbio si lascia sfuggire, convien pure che si prepari a resistere da tutti i lati. Alcuni, col loro compendio di metafisica tra le mani, getteranno verso di lui con dispregio lo sguardo, nella superba coscienza del loro possesso antico e perciò ritenuto legittimo; altri che non vedono mai cosa se non della stessa natura di ciò che essi qualch'altra volta han di già visto, non lo comprenderanno; e per qualche tempo tutto resterà così come se non fosse accaduto proprio nulla, che desse da teme­re o sperare un prossimo mutamento.

Tuttavia io ardisco predire che chi leggerà con indipendenza di giudizio questi Prole­gomeni, non solo dubiterà della propria scienza passata, ma sarà anche in futuro del tutto persuaso che un tal sapere non può darsi, se non si adempiono le condizioni qui espresse, sulle quali si fonda la possibilità di esso; e che, non essendosi ciò ancor mai avverato, non esiste ancora affatto una metafisica. Tuttavia, non potendo neppure an­dar mai perduta l'esigenza metafisica, giacché le è intimamente connesso l'interesse del­la universale ragione umana, egli ammetterà che una completa riforma o piuttosto una rinascita di essa secondo un piano finora del tutto sconosciuto sia inevitabilmente pros­sima, per quanto si voglia ora resistervi per un certo tempo.

Dopo i tentativi di Locke e di Leibniz, o piuttosto sin dalla nascita della metafisica, fin dove ne risale la storia, non è accaduto fatto, che, riguardo al destino di questa scien­za, sarebbe potuto divenire più decisivo dell'attacco mossole da David Hume. Egli non portò luce alcuna in questo campo di conoscenza, ma sprizzò tal scintilla, con cui ben si sarebbe potuto accender lume, se egli avesse con essa colpita un'esca suscettibile, il cui ardore fosse stato con sollecitudine alimentato e sviluppato.

Hume partì principalmente da un unico ma importante concetto della metafisica, cioè quello della connessione di causa ed effetto (e quindi anche dai concetti, da esso conse­guenti, della forza, dell'azione, ecc.) ed invitò la ragione, che in metafisica asserisce di aver generato quel concetto nel suo seno, a rendergli conto con qual diritto essa pensa che qualche cosa possa essere così costituita, che, se essa è posta, perciò anche qualch'altra cosa debba necessariamente esser posta; giacché ciò dice il concetto di causa. Egli provò irrefutabilmente che è del tutto impossibile alla ragione di pensare a priori, e traendolo da concetti, un tal collegamento; poiché questo implica una necessità, laddove non si può affatto vedere come, sol perché qualcosa è, qualcos'altro debba anche essere in modo ne­cessario, e come perciò il concetto di una tale connessione possa porsi a priori. Da ciò egli concluse che la ragione s'inganna totalmente riguardo a questo concetto; che a torto essa lo ritiene una propria creatura, mentre esso non è altro che un figlio bastardo della immaginazione, che, ingravidata dalla esperienza, ha sottoposto alcune rappresentazio­ni alla legge della associazione, e una necessità soggettiva che così ne nasce, cioè una abi­tudine, la spaccia poi come necessità oggettiva proveniente dalla intelligenza. Di qui egli concluse che la ragione non ha alcun potere di pensare tali connessioni anche soltanto in generale, poiché i suoi concetti sarebbero in tal caso pure finzioni, e tutte le sue pretese conoscenze a priori nient'altro che comuni esperienze con una falsa marca, il che vuol di­re che non v'ha alcuna metafisica e che non può esservene.

Per quanto sconsiderata e inesatta fosse la sua illazione, pure era essa per lo meno fon­data su una ricerca tale, che ben meritava che i buoni ingegni del suo tempo si fossero uniti a risolvere, se possibile, più felicemente la questione quale egli l'avvea proposta: dal che allora sarebbe necessariamente nata subito una completa riforma della scienza. [...]

Lo confesso francamente: l'avvertimento di David Hume fu proprio quello che, mol­ti anni or sono, primo mi svegliò dal sonno dogmatico e dette un tutt'altro indirizzo al­le mie ricerche nel campo della filosofia speculativa. Mi tenni ben lontano dal seguirlo nelle conseguenze, che provenivano solo dal fatto che egli non si propose la questione nella sua integrità, ma si fermò solo su di una parte di essa, che non può offrire nessu­na spiegazione senza implicare il tutto. Quando si parte da un pensiero, fondato per quanto non sviluppato, che altri ci ha lasciato, si può ben sperare di recarlo con la pro­seguita meditazione più lontano del punto a cui pervenne il sagace uomo a cui si fu de­bitori della prima scintilla di questo lume.

Ricercai, dunque, dapprima, se l'obbiezione di Hume poteva generalizzarsi, e subito trovai che il concetto di connessione tra causa ed effetto non è affatto l'unico, con cui l'intelletto pensa a priori i nessi tra le cose, e che anzi la metafisica consta tutta quanta di essi. Cercai di assicurarmi del loro numero, ed, essendomi ciò riuscito secondo il mio desiderio, di trarli, cioè, da un unico principio, pervenni così alla deduzione di questi concetti, dei quali ero oramai sicuro che non sono, come Hume aveva ritenuto, deriva­ti dall'esperienza, ma traggono origine dall'intelletto puro. Questa deduzione, che par­ve impossibile al mio acuto predecessore, che nessuno fuor di lui si era pur soltanto fat­ta venire in mente, quantunque ciascuno si servisse fiduciosamente dei concetti, senza domandare, su che cosa poi si fondasse la loro oggettiva validità; questa deduzione, di­co, era la cosa più difficile che mai poteva essere intrapresa per la metafisica; e il peggio ancora si è che quanta metafisica mai già preesistesse non poteva prestarmi neppure il minimo aiuto, giacché proprio quella deduzione deve costituire la possibilità di una metafisica. Ora, siccome ciò mi era riuscito con la soluzione del problema di Hume non solo in un caso particolare, ma anche rispetto a tutta la facoltà della ragion pura; così potei avanzarmi con passi sicuri, per quanto certo lenti, per riuscire finalmente a deter­minare completamente e secondo principi generali tutta l'estensione della ragion pura, così nei suoi limiti come nel suo contenuto; il che appunto era ciò di cui la metafisica aveva bisogno per costruire il suo sistema secondo un piano sicuro.

Dall '«Avvertenza preliminare»

Se una metafisica che potesse affermarsi come scienza, fosse reale, se si potesse dire: Ec­co la metafisica che voi dovete soltanto apprendere, perché essa vi convinca incontrastabilmente e invariabilmente della sua verità, questa questione sarebbe superflua e ri­marrebbe soltanto quella che riguarda più un esame della nostra acutezza mentale che una prova dell'esistenza stessa della cosa e cioè, in qual modo essa sia possibile, e come si comporti la ragione per giungervi. Ma in questo caso alla ragione umana la cosa non è andata così. Non si può indicare un solo libro, così come si presenta un Eu­clide, e dire: Questa è la metafisica, qui voi trovate, provato da princìpi di pura ragio­ne, il fine nobilissimo di questa scienza: la conoscenza di un Essere supremo e di un mondo futuro. [...]

I tentativi stessi fatti per attuare una tale scienza sono dunque stati senza dubbio la causa prima del nascere, così di buon'ora, dello scetticismo, maniera di pensare, in cui la ragione procede così violentemente contro sé medesima, che non sarebbe potuta mai nascere se non in una completa disperazione della ragione stessa riguardo al soddisfa­cimento dei suoi fini più importanti. Giacché molto tempo prima che si cominciasse a indagare metodicamente la natura, si indagò la propria ragione astratta, che dalla co­mune esperienza già era, in certa misura, esercitata: la ragione, infatti, ci è sempre pre­sente, mentre le leggi di natura devono di solito essere ricercate con fatica; così, come schiuma, si manteneva a galla la metafisica, in maniera che, non appena si liquefaceva quella già prima creata, se ne manifestava sempre alla superficie subito un'altra, che al­cuni avidamente raccoglievano, mentre altri, invece di cercare nella profondità la cau­sa di questa manifestazione, si stimavan saggi perché se la ridevano del vano affannarsi dei primi. I-

Disgustati dunque dal dogmatismo che niente ci insegna, e nel tempo stesso dallo scet­ticismo che non ci fa sperare proprio affatto nulla, neppure di riposare in una lecita ignoranza, incitati dalla importanza della conoscenza di cui noi abbiam bisogno, e dif­fidenti, per lunga esperienza, di tutta quella di cui ci crediamo in possesso o che ci si of­fra a titolo di ragione pura, ci rimane ancora soltanto una questione critica, secondo la cui soluzione noi possiamo regolare la nostra futura condotta: E’, in generale, possibile la metafisica? Ma questa questione deve esser risolta non con obiezioni scettiche a certe affermazioni di una metafisica reale (ché noi per ora non ne riteniamo valida al­cuna), ma partendo dal concetto ancora soltanto problematico di una tale scienza.

Nella Critica della Ragion pura io mi son messo all'opera, intorno a tale questione, sin­teticamente, cioè in maniera da indagar nella stessa ragion pura e da cercar di determi­nare, secondo principi, in questa stessa fonte, così gli elementi come le leggi del suo uso puro. Questo lavoro è difficile e richiede un lettore risoluto ad approfondirsi pian pia­no in un sistema, che, a fondamento, come dato, non pone ancora nulla fuorché la ra­gione stessa, e perciò, senza appoggiarsi su un qualche fatto, cerca di sviluppare la co­noscenza dai suoi germi originari. I Prolegomeni, al contrario, vogliono essere degli eser­cizi preparatori; essi vogliono indicare ciò che v'è da fare per costituire, se possibile, una scienza, più che esporre la stessa. Essi devono perciò fondarsi su qualcosa, che già si co­nosce di sicuro, e da cui si può partire con fiducia e ascendere alle fonti, che ancora non si conoscono, e la cui scoperta non solo ci chiarirà ciò che già si sapeva, ma ci farà in­sieme vedere una estensione di molte conoscenze, che, tutte quante, derivano dalle det­te fonti. Il procedimento metodico dei prolegomeni, dunque, principalmente di quel­li che devono preparare ad una futura metafisica, sarà analitico.

Or per buona sorte avviene, che, sebbene non possiamo ammettere come reale la me­tafisica in quanto scienza, pure possiamo dire con sicurezza che è reale ed è data una certa conoscenza sintetica pura a priori, cioè la matematica pura e la fisica pura; poiché entrambe contengono proposizioni che sono riconosciute universalmente, in parte dal­la semplice ragione con apodittica certezza, in parte dall'universale consenso trat­to dalla esperienza, e che tuttavia sono riconosciute come indipendenti dalla esperien­za. Noi dunque almeno qualche incontestata conoscenza sintetica a priori l'abbiamo; e non abbiam bisogno di domandarci se essa sia possibile (giacché è reale), ma soltanto come essa è possibile, per poter trarre dal principio della possibilità della conoscenza data anche quella di tutta la rimanente.

3. La scienza e i «giudizi sintetici a priori»

Benché ogni nostra conoscenza cominci con l’esperienza, da ciò non segue che essa derivi interamente dall’esperienza. Potrebbe infatti avvenire che la nostra stessa conoscenza empirica sia un composto di ciò che riceviamo mediante le impressioni e di ciò che la nostra facoltà conoscitiva vi aggiunge da sé sola (semplicemente stimolata dalle impressioni sensibili).

In questa frase di Kant è ben visibile la sua critica al dogmatismo e all’empirismo. Contro il dogmatismo Kant accetta che la conoscenza abbia origine dall’esperienza; all’empirismo obietta che la nostra conoscenza non deriva interamente dall’esperienza.. Ma in questa stessa frase è già riassunta la grande scoperta gnoseologica che sta alla base del criticismo e che egli, consapevole della novità, paragona alla “rivoluzione copernicana”. Copernico, per spiegare i movimenti dei corpi celesti, ha abbandona il geocentrismo e ha posto il sole al centro dell'universo; così Kant , per spiegare e fondare la scienza, capo­volge il modo tradizionale di intendere i rapporti conoscitivi tra soggetto e oggetto. Ecco i passaggi che permettono a Kant di attuare una autentica rivoluzione gnoseologica.

Innanzitutto egli esamina i vari tipi di giudizi possibili (“giudizio” qui significa attribuire un predicato ad un soggetto).

a] I giudizi che stanno alla base del dogmatismo sono i giudizi analitici a priori o esplicativi. Sono giudizi che vengono enunciati senza far ricorso all'espe­rienza, nei quali il predicato esplicita in un processo di analisi ciò che è già contenuto nel soggetto: per esempio: "I corpi sono estesi". Tale affermazione è un giudizio analitico a priori, perché l'estensione è già implicita nel soggetto. Di conseguenza questi giudizi, pur essendo universali e necessari, sono infecondi, in quanto non ampliano il nostro sapere.

b] I giudizi propri dell’empirismo sono invece i giudizi sintetici a posteriori: nel predicato c'è qualcosa di nuovo rispetto al soggetto, ma questa nuova informazione è ricavata a posterio­ri, partendo dall'esperienza, per esempio: "I corpi sono pesanti". Questi giudizi sono fecondi, ampliano cioè le nostre conoscenze, ma sono privi di universalità e di necessità, perché fondati semplicemente sulla nostra limitata esperienza.

c] Kant ritiene che un sapere fecondo e al tempo stesso universale e necessario possa fondarsi solo su giudizi sintetici a priori, cioè su giudizi che ampliano il nostro sapere (“sintetici”) e, nel contempo, necessari e universali (“a priori”, non legati alle nostre esperienze determinate).

A questo punto il problema è di stabilire se esistano giudizi sintetici a priori e come siano possibili.

4. La dottrina della conoscenza e la «rivoluzione copernicana»

Dopo aver affermato che: “Il problema vero e proprio della ragion pura è contenuto nella domanda: come sono possibili i giudizi sintetici a priori?” e aver evidenziato come il sapere scientifico si basi su tali princìpi sin­tetici a priori, Kant ne ricerca l’origine. Se essi non derivano dall'espe­rienza, donde deriveranno? Per rispondere a ciò, Kant elabora una nuova dottrina della conoscenza come sintesi di materia (tutte le impressioni sensibili, che l’uomo riceve dall'e­sperienza) e di forma (l'insieme dei modi attraverso cui la mente umana ordina tali impressioni). Questi modi sono le forme a priori, che sono innate e comuni a tutti gli uomini, e si chiamano appunto forme a priori o forme pure, perché precedono l'esperienza e sono universalmente valide e necessarie, in quanto tutti le possiedono sin dalla nascita e le applicano allo stesso modo. La mente umana entra in contatto con la realtà empirica filtrandola appunto attraverso queste forme a priori. Così il rapporto tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto viene a delinearsi in questo modo: il soggetto riceve dall’esperienza l’oggetto della conoscenza (la “materia”) e, al tempo stesso, lo modifica (conferisce alla materia la forma). Per meglio chiarire tale originale dottrina gnoseologica kantiana, si può ricorrere all'esempio che paragona le forme a priori a delle specie di lenti a contatto colorate o a occhiali permanenti, attraverso cui guar­diamo la realtà.

Le forme a priori, che, come sarà chiaro più avanti, sono lo spazio e il tempo per quanto riguarda la sensibilità e le dodici categorie (tra le quali citiamo il principio di causalità) per quanto riguarda l’intelletto, sono dunque innate in ogni essere pensante ed è attraverso di esse che conosciamo la realtà. Infatti noi siamo certi che anche in futuro tutto ciò che accadrà avrà una causa e sarà situato nello spazio e nel tempo, in quanto noi non possiamo cogliere la realtà se non attraverso lo spazio e il tempo e mediante il principio di causalità, ricorrendo cioè a tali forme a priori e potendo così formulare giudizi sintetici a priori.

Una conseguenza importante di questa nuova dottrina gnoseologica è la celebre distinzione kan­tiana tra fenomeno e noùmeno. Il fenomeno (lett. "ciò che si manifesta o appare") è la realtà così come noi la cogliamo attraverso le forme a priori, che sono proprie della nostra struttura conoscitiva. Il fenomeno è pertanto l’oggetto della conoscenza, in quanto condizionato dalle forme dell’intuizione sensibile (spazio e tempo) e dalle 12 categorie dell’intelletto, ed è qualcosa di reale, ma soltanto in rapporto a noi, quali soggetti conoscenti. Dal momento che ogni oggetto, nel momento in cui è conosciuto, viene modificato dalle forme a priori della nostra facoltà conoscitiva, è evidente che l’uomo non sarà mai in grado di conoscere l’oggetto in sé, ma sempre e soltanto come esso si presenta a noi. Tuttavia se non siamo in grado di conoscere l’oggetto in sè lo possiamo pensare. Ecco allora che l’oggetto, non in quanto conosciuto, ma in quanto solo pensato è chiamato da Kant noùmeno. Il noùmeno (lett. “ciò che è pensato”) è la realtà conside­rata indipendentemente da noi, è, la cosa‑in‑sé (Ding an sich). Tale cosa-in-sé costi­tuisce una specie di “x sconosciuta”, in quanto l'uomo, lo ripetiamo, può conoscere soltanto l’oggetto fenomenico e mai il noùmeno. “La conoscenza della ragione arriva solo fino ai fenomeni, lasciando senz’altro che la cosa-in-sé sia per se stessa reale, ma sconosciuta”.

5. I gradi della conoscenza e la suddivisione della «Critica della ragion pura»

Kant distingue nella conoscenza tre gradi o livelli: “Ogni nostra conoscenza scaturisce dai sensi, da qui va all’intelletto, per finire nella ragione”. Essi sono:

1] la sensibilità: la facoltà mediante cui gli oggetti esterni ci vengono dati direttamente e con immediatezza tramite i sensi, anche se già filtrati dalle forme pure di spazio e tempo;

2] l'intelletto: la facoltà mediante cui noi pensiamo gli oggetti sensibili ricorrendo alle dodici categorie o concetti puri;

3] la ragione (in senso stretto): la facoltà attraverso cui, andando oltre l’esperienza, cerchiamo di spiegare tutta quanta la realtà utilizzando le tre idee di anima, mondo e Dio, e proponendo di conseguenza una metafisica. L’uomo tende cioè, mediante la ragione, a oltrepassare e abbandonare l’esperienza e così conoscere l’Assoluto.

Su tale tripartizione della conoscenza umana (=la ragione in senso lato) poggia la divisione per argomenti della «Critica della ragion pura», che si presenta costituita da due parti principali. Mentre la prima parte riguarda la dottrina degli elementi (vale a dire quegli elementi formali della conoscenza, che Kant chiama puri o a priori e che la rendono universalmente valida), la seconda parte concerne la dottrina del metodo (come si usano tali elementi a priori della conoscenza, cioè il metodo della conoscenza stessa).

La dottrina degli elementi, che rappresenta la sezione più estesa dell’opera, comprende una estetica trascendentale e una logica trascendentale. Con il termine estetica trascendentale Kant in­tende, seguendone il significato etimologico greco, la dottrina della sensibilità, che studia le forme a priori di spazio e tempo, mostrando come su di esse si fondi la matematica. La logica trascendentale (o «dottrina del pensiero»), si distingue a sua volta in analitica trascendentale e in dialettica trascendentale. L'analitica trascendentale studia l'intelletto e le sue forme a priori (le 12 categorie), provando come su di esse si fondi la fisica. La dialettica trascendentale studia infine la ragione e le sue tre idee: Dio, mondo e anima, mostrando come su di esse si fondi la metafi­sica, che non raggiunge tuttavia lo statuto di scienza.

Nella filosofia medievale il termine trascendenta­le indicava le proprietà universali (l'essere, l'uno, il bene, il vero ecc.) comuni a tutte le cose, che «trascendono» in generalità le categorie (nel senso aristotelico, in numero di dieci: sostanza, qualità, quantità, relazione, luogo, tempo, ecc.). In Kant tale termine indica invece la riflessione filosofica sulle forme a priori, che rendono possibile la conoscenza umana: a rigore, quindi, non le intuizioni pure o le categorie sono trascendentali, bensì solo le discipline filosofiche relative ad esse, cioè rispettivamente l’estetica trascendentale e la logica trascendentale. Tuttavia Kant stesso ha usato disinvoltamente il termine «trascendentale» anche come sinonimo di «a priori» e pertanto in opposizione a «empirico» (e questo uso è rimasto quello prevalente in seguito, per esempio nelle varie forme di idealismo):

Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupi, in generale, non tanto di oggetti quanto del nostro modo di conoscere gli oggetti nella misura in cui questo deve essere possibile a priori.

Il titolo «Critica della ragion pu­ra» può a questo punto essere così parafrasato: «esame critico generale delle possibilità, della validità e dei limiti che la ragione umana, quale facoltà conoscitiva, possiede in virtù dei suoi elementi puri a priori». Tale «critica» assume la forma di

un richiamo alla ragione affinché intraprenda di nuovo il più arduo dei suoi compiti, cioè la conoscenza di sé, e istituisca un tribunale che la tuteli nelle sue giuste pretese, ma tolga di mezzo quelle prive di fondamento... e questo tribunale altro non è se non la critica della ragion pura stessa. Con questa espressione non intendo alludere a una critica dei libri e dei sistemi, ma alla critica della facoltà della ragione in generale, rispetto a tutte le conoscenze a cui essa può aspirare indipendentemente da ogni esperienza.

6. L’estetica trascendentale: la dottrina dello spazio e del tempo e la giustificazione della matematica

Nella parte dedicata alla estetica trascendentale Kant analizza la sensibilità e le sue forme a priori, spazio e tempo. Secondo Kant, la sensibilità è, da un lato, ricettiva (accoglie cioè at­traverso un'intuizione immediata i dati sia della realtà esterna che quelli dell'esperienza interna) e le sensazioni che riceve sono chiamate «intuizioni empiriche o sensibili»; dall’altro è anche attiva, in quanto organizza tali dati mediante lo spazio e il tempo, che costi­tuiscono appunto le forme a priori della sensibilità e che da Kant sono chiamate anche «intuizioni pure».

Lo spazio è la forma o il modo del senso esterno e manifesta la coesistenza delle varie entità, vale a dire il disporsi delle cose l’una accanto all'altra. Il tempo è la forma o il modo del senso in­terno e manifesta l'ordine della successione dei nostri stati interni, cioè il loro disporsi l’uno dopo l’altro. Kant rileva tuttavia come i dati della realtà esterna giungono a noi anche attraverso la forma del tempo, poiché è soltanto attraverso il tempo che noi percepiamo tutti gli oggetti. La percezione spaziale av­viene sempre nel tempo. Pertanto, anche se non ogni cosa è nello spazio, per esempio i sentimenti, ogni cosa però è nel tempo, in quanto “tutti i fenomeni in generale, ossia tutti gli oggetti dei sensi, cadono nel tempo” e tra di loro si rapportano temporalmente.

Kant giustifica l'a­priorità dello spazio e del tempo utilizzando sia argomenti teorici generali che argomenti tratti dalla considerazione delle scienze matematiche. In particolare, Kant rifiuta sia la visione empiristica, secondo cui spazio e tempo sono nozioni provenienti dall'esperienza (Locke), sia la visione oggettivistica, secondo cui spazio e tempo non sarebbero al­tro che delle entità autosufficienti o dei contenitori vuoti (Newton), sia la visione relazionistico ‑ concettualistica, secondo cui spazio e tempo non sono che concetti esprimenti i molteplici rapporti tra le cose (Leibniz). Per esempio, confutando la visione empiristica di Locke, Kant afferma che spazio e tempo non possono assolutamente derivare dall'esperienza, in quanto perché ci sia un'esperienza è necessario già presupporre le rappresentazioni o le coordinate originarie di spazio e tempo.

Secondo Kant, la geometria e l'aritmetica sono delle scienze sintetiche a priori per eccellenza, basate sulle intuizioni pure di spazio e tempo, che ne garantiscono l’universalità e la necessità. Infatti, sono scienze sintetiche, in quanto ampliano il nostro sapere, offrendoci informazioni prima ignote. Per esempio, la proposizione 7 + 5 = 12 è sintetica, in quanto il risultato 12 viene raggiunto tramite l'operazione del sommare e non può quindi essere ricavato dal soggetto per via analitica. Sono altresì scienze a priori, perché, secondo una tradizione largamente accettata, che va da Platone a Hume, tutti i teoremi geometrici e aritmetici valgono indipendentemen­te dall'esperienza.

Pertanto, secondo Kant, il fondamento per cui la matematica (la geometria e l’aritmetica) è una scienza sin­tetica a priori risiede nelle intuizioni pure di spazio e di tempo. In­fatti, la geometria è la scienza che dimostra in modo sintetico a priori le proprietà delle figure mediante l'intuizione pura dello spazio: senza ricorrere all’esperienza del mondo esterno, si stabilisce che tra le infi­nite linee che uniscono due punti quella più breve è la linea retta, oppure che due linee parallele non racchiudono uno spazio, o che il raggio di una circonferenza è minore del diametro. In modo analogo, l'aritmetica è la scienza che determina in modo sintetico a priori le proprietà delle serie numeriche mediante l'intuizione pura di tempo e di succes­sione: senza una tale intuizione non ci sarebbe neppure il concetto di numero.

A questo punto Kant si chiede per quale motivo la matematica, pur essendo in definitiva basata e costruita sulla nostra mente, vale anche per la natura. E perché, mediante tale scienza, possiamo già anticipare certe proprietà inerenti alla natura, che sol­tanto in seguito verificheremo tramite l'esperienza. Allontanandosi dalla concezione di Galilei, secondo cui Dio, creando, geometrizza, intendendo con ciò indicare come vi sia una corrispondenza ontologica tra le figure e i numeri, da una parte, e il mondo fisico, dall’altra, Kant afferma che tanto la geome­tria quanto l'aritmetica possono essere proficuamente utilizzate per apprendere gli oggetti dell'esperienza fenomenica, perché appunto quest'ul­tima, essendo intuita nello spazio e nel tempo (che sono i cardini della matematica), possiede già una strut­tura geometrica e aritmetica. Ne consegue allora che se la forma a prio­ri di spazio con cui rappresentiamo la realtà è di tipo euclideo, ciò significa che i teoremi della geometria di Euclide saranno validi per l'intero mondo fenomenico.

Dalla “Critica della Ragion pura”

In qualunque modo e con qualunque mezzo una conoscenza si riferisca ad oggetti, quel modo, tuttavia, per cui tale riferimento avviene immediatamente, e che ogni pensiero ha di mira come mezzo, è l'intuizione. Ma questa ha luogo soltanto a condizione che l'og­getto ci sia dato; e questo, a sua volta, è possibile, almeno per noi uomini, solo in quanto modifichi, in certo modo, lo spirito. La capacità (ricettività) di ricevere rappresentazio­ni in modo da essere modificati dagli oggetti, si chiama sensibilità. Gli oggetti dun­que ci sono dati per mezzo della sensibilità, ed essa sola ci fornisce intuizioni; ma queste vengono pensate dall'intelletto, e da esso derivano i concetti. Ma ogni pensiero deve, di­rettamente o indirettamente, mediante certe note, riferirsi infine a intuizioni, e perciò, in noi, alla sensibilità poiché in altro modo non può esserci dato nessun oggetto.

L’azione di un oggetto sulla capacità rappresentativa, in quanto noi ne siamo affetti, è sensazione. Quella intuizione che si riferisce all'oggetto mediante la sensazione, si chiama empirica. L’oggetto indeterminato di una intuizione empirica si dice fenomeno.

Nel fenomeno, io chiamo materia ciò che corrisponde alla sensazione; ciò invece, per cui il molteplice del fenomeno possa essere ordinato in determinati rapporti, lo chiamo forma del fenomeno. Poiché quello in cui soltanto le sensazioni si ordinano e possono essere poste in una forma determinata, non può essere di nuovo una sensazione; così la mate­ria di ogni fenomeno deve sì essere data solo a posteriori, ma la forma di esso deve trovarsi per tutti bella e pronta a priori nello spirito; e però deve essere considerata separata da ogni sensazione.

Tutte le rappresentazioni, nelle quali non è mescolato nulla di ciò che appartiene alla sensazione, le chiamo pure (in senso trascendentale). Quindi la forma pura delle intui­zioni sensibili in generale, in cui tutta la varietà dei fenomeni viene intuita in determi­nati rapporti si troverà a priori nello spirito. Questa forma pura della sensibilità si chia­merà essa stessa intuizione pura. Così, se dalla rappresentazione di un corpo separo ciò che ne pensa l'intelletto, come sostanza, forza, divisibilità, ecc., e a un tempo ciò che ap­partiene alla sensazione, come impenetrabilità, durezza, colore, ecc., mi resta tuttavia qualche cosa di questa intuizione empirica, cioè l'estensione e la forma. Queste appar­tengono alla intuizione pura, che ha luogo a priori nello spirito, anche senza un attuale oggetto dei sensi, o una sensazione, quasi semplice forma della sensibilità.

Chiamo estetica trascendentale una scienza di tutti i principi a priori della sensibilità. Deve esserci una tale scienza, che costituisca la prima parte di una dottrina trascen­dentale degli elementi, in opposizione a quella che contiene i principi del pensiero pu­ro, e vien denominata logica trascendentale.

Nella estetica trascendentale, dunque, noi isoleremo dapprima la sensibilità, sepa­randone tutto ciò che ne pensa coi suoi concetti l'intelletto, affinché non vi resti altro che l'intuizione empirica. In secondo luogo, separeremo ancora da questa ciò che ap­partiene alla sensazione, affinché non ne rimanga altro che la intuizione pura e la sem­plice forma dei fenomeni, che è ciò solo che la sensibilità può fornire a priori. In que­sta ricerca si troverà che vi sono due forme pure di intuizione sensibile, come principi della conoscenza a priori, cioè spazio e tempo, del cui esame noi ci occuperemo ora.

7. L’analitica trascendentale: le dodici categorie e la deduzione trascendentale

La logi­ca trascendentale ha come oggetto specifico d'indagine le conoscenze a priori che sono proprie sia dell’intelletto (studiato nell’analitica trascendentale) che della ragione in senso stretto (studiata nella dialettica trascendentale).

Nell’analitica trascendentale vengono affrontati soprattutto quattro punti:

a) le categorie

b) la deduzione trascendentale

c) lo schematismo trascendentale

d) l’Io legislatore della natura

a] le categorie

L'analitica trascendentale studia l'intelletto e le sue categorie, determinandone il numero, la validità e il loro uso specifico. Per indicare le forme pure o concetti puri dell'intelletto, Kant utilizza un termine proposto da Aristotele, attribuendovi però un significato alquanto diverso. Tale termine è categoria. In Aristotele le categorie svolgono una funzione ontologica e logica; in Kant, invece, le categorie non designano più i modi d’essere della realtà, ma esclusivamente il nostro modo di conoscerla. Le categorie sono allora i modi mediante cui l’intelletto pensa, organizzandoli e unificandoli, i contenuti offerti dalle intuizioni spazio‑temporali della sensibilità.

La sensibilità e l’intelletto sono entrambi indispensabili alla conoscenza:

Senza sensibilità, nessun oggetto ci verrebbe dato e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato. I pensieri senza contenuto [cioè senza le intuizioni sensibili] sono vuoti, le intuizioni [cioè spazio e tempo] senza concetti sono cieche... L’intelletto non può intuire nulla, ed i sensi nulla possono pensare. Solo dalla loro unione può scaturire la conoscenza.

Una volta stabilito che cosa si intende per categoria, Kant ne redige un elenco completo. Vediamo in che modo.

Dato che pensare è giudicare, e giudicare vuol dire attribuire un predicato ad un soggetto, vi saranno tante categorie (cioè tanti predicati primi) quanti sono i tipi di giudizio, vale a dire quante sono le maniere fondamentali tramite cui si attribuisce un predicato ad un soggetto. Nella logica generale i giudizi sono raggruppati in quattro tipi: la quantità, la qualità, la relazione e la modalità. Kant fa allora corrispondere ad ogni tipo di giudizio un tipo di categoria, e si avrà pertanto la seguente tavola delle categorie:

quantità: unità, pluralità, totalità;

qualità: realtà, negazione, limitazione;

relazione: sostanzialità, causalità, reciprocità d'azione;

modalità: possibilità - impossibilità, esistenza - non esistenza, necessità - contingenza.

E' facile osservare come queste categorie kantiane siano presenti in tutti i nostri giudizi o enunciati, nei quali si concretizza il nostro pensiero. Infatti si parla sempre di una cosa o di più cose o di una totalità delle cose (categorie della quantità). Si afferma o che una cosa è reale oppure che non lo è oppure che non è quella tale realtà (categorie della qualità). Si giudica che una certa proprietà appartiene ad una certa sostanza o che un determinato fatto è causa di un altro fatto, o che due cose agiscono e reagiscono l'una sull'altra (categorie della relazione). Infine si afferma che una certa cosa è possibile o impossibile, che esiste o che non esiste, che deve necessariamente esistere o è puramente accidentale (categorie della modalità). Perciò pensare un oggetto significa utilizzare sempre qualcuna di queste categorie. Per esempio, nell’enunciato: "Tutti gli uomini sono mortali", è piuttosto agevole individuare le categorie in esso presenti (totalità, realtà, necessità, sostanzialità).

b] la deduzione trascendentale

Kant, dopo avere formulato la tavola delle dodici categorie, ne giustifica la validità e l'uso. Questa giustificazione è denominata deduzione trascendentale e, a parere del filosofo di Königsberg, si tratta del problema più difficile della “Critica della ragion pura”.

Il termine deduzione, che Kant trae dal linguaggio giuridico, significa qui “giustificazione”. Tale deduzione delle dodici categorie consiste allora non solo nel dimostrare come esse siano di fatto utilizzate nelle conoscenze scientifiche, ma anche come questo uso sia un uso legittimo. Infatti, per quale motivo le categorie, pur essendo forme soggettive presenti nella nostra mente, pretendono di valere anche per gli oggetti esterni a noi? Che cosa assicura che tutti i dati della natura, manifestandosi nell'esperienza, obbediranno a tali categorie?

Una tale problematica è tipica della dottrina gnoseologica kantiana, secondo cui la realtà fenomenica, oltre che alle forme a priori delle nostre intuizioni sensibili (spazio e tempo), obbedisce anche ai nostri modi di pensarla; e ciò esige una giustificazione critica adeguata. Se, al contrario, si ritiene che l'intelletto umano produca esso stesso gli oggetti (Fichte), oppure che l’intelletto, come sostiene in genere il realismo, dipende, in quanto organo passivo, dagli oggetti esterni, allora il problema della deduzione trascendentale non sussiste più, perché, nel primo caso, è la mente umana a determinare il mondo fenomenico (soggettivismo assoluto), mentre, nel secondo caso, è la natura a determinare la mente (oggettivismo assoluto).

Secondo Kant, tutti gli oggetti dell'esperienza, per essere pensati, devono riferirsi ad un unico centro mentale, che li unifica e li organizza, e che è comune a tutti gli uomini. Questo centro mentale è dallo stesso Kant denominato in modo impersonale con il termine "Io penso" (Ich denke) oppure "appercezione” o ancora "autocoscienza trascendentale". Dato che l' "Io penso" unifica e organizza tutti i dati dell'intuizione spazio‑temporale tramite le dodici categorie, ne segue necessariamente che gli oggetti non possono venire percepiti in modo spaziale e temporale, senza essere simultaneamente categorizzati, ossia sottoposti alle forme a priori dell'intelletto, vale a dire alle dodici categorie.

L' "Io penso" è il principio supremo della conoscenza umana, mentre le categorie, che sono i modi universali e necessari mediante i quali l' "Io penso" elabora i dati dell'esperienza, sono le leggi stesse del mondo fenomenico, che, obbedendo ad esse, funzionerà sempre secondo tali categorie. Si può pertanto affermare che le categorie rappresentano la struttura formale dell'esperienza, ossia l'insieme delle relazioni oggettive che connettono i dati in maniera comune a tutte le menti umane. Ed è per mezzo di tali categorie che noi possiamo proficuamente comunicare tra di noi, in quanto soltanto tramite di esse possiamo determinare rapporti universali e necessari tra soggetto e predicato. E' opportuno inoltre sottolineare come l’ “Io penso” kantiano non sia affatto un "Io" creatore, dato che la sua funzione consiste esclusivamente nell'unificare e nell'organizzare i dati sensibili provenienti dall’esterno, vale a dire i dati dell'esperienza, colti in maniera spazio‑temporale.

c] lo schematismo trascendentale

Una volta dimostrato per mezzo della deduzione trascendentale come sia possibile all'intelletto pensare il mondo fenomenico tramite le proprie categorie o concetti puri, si dovrà ora spiegare come in concreto ciò avvenga, e a questo scopo Kant propone la dottrina dello schematismo.

La questione sorge dal fatto che la sensibilità e l'intelletto, pur essendo entrambe facoltà conoscitive, sono eterogenee, in quanto l'una ha per oggetto i dati del mondo esterno, mentre l'altra ha per oggetto l'unificazione di tali dati sensibili e la loro organizzazione. Kant deve allora individuare un elemento mediatore, per cui l'intelletto possa applicare i propri concetti alle intuizioni empiriche. E ciò che si sta per esporre costituisce il "segreto" o la "chiave di volta" della “Critica della ragion pura”.

Kant afferma che l'intelletto agisce indirettamente sugli oggetti della sensibilità attraverso il tempo, che è il mezzo universale attraverso cui tutti gli oggetti del mondo fenomenico sono percepiti. Se il tempo condiziona gli oggetti, l'intelletto, condizionando direttamente il tempo, a sua volta condizionerà indirettamente tali oggetti. Ciò avviene perché l'intelletto, attraverso una sua particolare facoltà, chiamata da Kant immaginazione produttiva, determina la rete del tempo secondo degli schemi corrispondenti ognuno a una delle categorie:

- lo schema delle categorie della quantità è il numero;

- quello delle categorie della qualità è la cosa;

- quello delle categorie della relazione è la permanenza nel tempo;

- e infine quello delle categorie della modalità è l'esistenza nel tempo (o in un tempo qualsiasi o in un determinato tempo o in ogni tempo). Questi schemi trascendentali sono, per così dire, le categorie calate nel tempo, ovvero le regole attraverso le quali l'intelletto condiziona il tempo in conformità ai propri concetti a priori. Con tale dottrina dello schematismo Kant ha dimostrato come la mente umana non si limiti a ricevere la realtà attraverso il tempo, ma riceva il tempo stesso secondo determinate dimensioni, che sono il corrispondente, in chiave temporale, delle dodici categorie.

E' allora possibile affermare a priori che l'universo è costituito perennemente da una successione di stati temporali, che sono tra di loro connessi in modo necessario. E ciò perché noi non possiamo cogliere la realtà fenomenica, se non attraverso lo schema della permanenza nel tempo, e pertanto per mezzo delle categorie di sostanza, causa, necessità, totalità, ecc..


d] l’Io legislatore della natura

Quale conclusione dell'analitica trascendentale si ha la dottrina dell'Io come legislatore della natura. Tale dottrina rappresenta la formulazione più matura della «rivoluzione copernicana» in filosofia. Secondo Kant, è necessario distinguere due significati fondamentali del termine natura:

1) natura in senso materiale indica l'insieme dei fenomeni e delle leggi che l'esperienza ricava da essi;

2) natura in senso formale indica l'insieme delle leggi universali e necessarie, provenienti dalla struttura della mente umana (vale a dire dall’ «Io penso» e dalle sue forme a priori, cioè le categorie), e che essa impone, regolandoli, a tutti i fenomeni. Di conseguenza, si può ritenere che l' Io è il legislatore della natura in senso formale, cioè l' Io è il soggetto delle varie relazioni costituenti il tessuto o lo scheletro della nostra esperienza fenomenica. Se dunque l' Io è il fondamento della natura, l’Io è anche il fondamento della scienza che studia la natura: la fisica.

Infatti, i pilastri ultimi della fisica poggiano sui giudizi sintetici a priori presenti nella mente, che a loro volta derivano dalle intuizioni pure di spazio e tempo e dalle dodici categorie. Kant ritiene in tal modo di avere giustificato filosoficamente la natura scientifica della fisica galileiano-newtoniana, respingendo lo scetticismo radicale di Hume, sostenuto dal suo empirismo. Kant sostiene infatti che l'esperienza, essendo sempre condizionata dalle categorie dell'intelletto e dall' Io penso, non potrà mai smentire i princìpi che ne derivano. Con ciò si ribadisce di nuovo la convinzione che la garanzia della validità della conoscenza umana risiede nella mente stessa dell'uomo, tanto da poter concludere che l'oggettività della conoscenza consiste appunto nella sua stessa soggettività.

Da quanto più volte affermato, risulta che per Kant il conoscere non può estendersi al di là dell'esperienza, in quanto una conoscenza che non faccia riferimento ad un'esperienza possibile non è conoscenza, ma soltanto un pensiero vuoto che non conosce nulla. L'ambito della conoscenza umana è rigorosamente limitato al fenomeno, poiché la cosa‑ in‑sé non può divenire oggetto di esperienza. Infatti lo stesso termine proposto da Kant, noùmeno (=“ciò che è pensato “), indica che non potrà mai essere conosciuto, né tanto meno sperimentato. Questo “noùmeno” non può mai diventare oggetto di una nostra intuizione sensibile: resta per sempre al di là delle nostre capacità conoscitive.

A questo proposito Kant paragona la scienza alla terraferma di un’isola e la metafisica alle onde di un oceano in tempesta. Il «metafisico» si comporta come un navigante, che tenta invano di raggiungere irraggiungibili terre.

E’ il territorio della verità (nome seducente), circondato da un ampio e maestoso oceano, in cui ha la sua sede più propria la parvenza [=l’illusione metafisica], dove innumerevoli banchi di nebbia e di ghiacci creano ad ogni istante l’illusione di nuove terre, e, generando sempre nuove ingannevoli speranze nel navigante che si aggira avido di nuove scoperte, lo sviano in avventurose imprese, che non potrà né condurre a buon fine né abbandonare una volta per sempre.

Ma per giustificare questa conclusione sulla metafisica occorre seguire le argomentazioni kantiane contenute nella terza ed ultima parte della “Critica della Ragion pura”: la dialettica trascendentale.

8. La dialettica trascendentale: la genesi della metafisica e delle sue tre idee (anima, mondo e Dio)

Dopo aver dimostrato, nell'estetica trascendentale e nell'analitica trascendentale, che tanto la matematica quanto la fisica costituiscono un sapere scientifico, perché fondate in definitiva su giudizi sintetici a priori, nella dialettica trascendentale Kant esamina se la metafisica tradizionale possa ritenersi una vera e propria scienza. E la risposta è negativa.

Kant usa il termine dialettica non nel senso positivo inteso da Platone, secondo cui la dialettica è la scienza delle idee, bensì nel senso negativo attribuitole da Aristotele, secondo cui con “dialettica” si intende l'arte sofistica di costruire dei ragionamenti capziosi (apparentemente corretti dal punto di vista logico) fondati su premesse che sembrano vere, ma che in realtà non lo sono. La dialettica trascendentale è perciò l'analisi e la dimostrazione dei ragionamenti fallaci della metafisica. Va osservato, tuttavia, che negare il valore scientifico della metafisica non significa negarne l’esistenza come disposizione naturale. La nostra ragione, infatti, tende irresistibilmente a varcare i limiti dell’esperienza e a cercare un fondamento assoluto ed è per questo che Kant definisce tale facoltà: “facoltà dell’incondizionato”, “pura esigenza dell’Assoluto”.

A tal proposito, Kant propone il seguente paragone: come una colomba che, presa dall'entusiasmo del volo e notando come l'aria costituisca un ostacolo a questa sua attività, immagina che essa potrebbe volare anche senza l'aria, non rendendosi conto che l'aria, pur costituendo un limite al suo volo, ne è tuttavia la condizione indispensabile, senza cui essa non potrebbe affatto volare, così avviene a chi ritenga di poter conoscere qualcosa che trascenda i dati sensibili, cioè questo mondo fenomenico.

Secondo Kant, questa tendenza naturale, presente in ogni uomo, di andare oltre la propria esperienza, deriva dall'esigenza di cogliere in modo incondizionato e assoluto tutto ciò che esiste. La nostra ragione è attratta in modo irresistibile verso l'Assoluto e verso una spiegazione globale della realtà. In particolare, la ragione è costitutivamente portata a:

a] unificare i dati del senso interno mediante la nozione di anima, che è l'idea della totalità assoluta dei fenomeni interni;

b] unificare i dati dei sensi esterni mediante il concetto di mondo, che è l'idea della totalità assoluta dei fenomeni esterni;

c] unificare tanto i dati interni quanto quelli esterni mediante la nozione di Dio, inteso come totalità suprema o somma di tutte le totalità e fondamento ultimo di tutto ciò che esiste.

Secondo Kant l'errore della metafisica consiste nel trasformare queste tre esigenze di unificazione dell'esperienza in altrettante realtà, dimenticando che a noi non è mai concesso o possibile oltrepassare la realtà fenomenica. Kant intende analizzare in modo critico le varie peripezie e i ripetuti naufragi che il pensiero umano incontra quando procede oltre gli orizzonti dell'esperienza, guidato da un'illusione così forte che non scompare neppure quando egli se ne rende conto: simile in questo all'astronomo che, pur sapendo che la luna ha sempre la stessa grandezza, non può impedire che al suo levarsi gli appaia più grande.

Per dimostrare l'infondatezza della metafisica, Kant esamina le tre scienze che, al suo tempo, ne costituivano il nucleo fondamentale: la psicologia razionale, che studia l'anima, la cosmologia razionale, che indaga sul mondo, e infine la teologia razionale o naturale, che concerne Dio stesso.

11. La dialettica trascendentale: la critica della psicologia razionale e della cosmologia razionale

Per quanto riguarda la psicologia razionale, Kant ritiene che essa si basi su un ragionamento errato (lett. un “paralogisma”), consistente nell'applicare la categoria di sostanza all' "Io penso", trasformandolo in una realtà permanente, che viene chiamata anima. Kant osserva che l' "Io penso" non è un concetto, ma solo la coscienza che accompagna ogni nostro concetto e quindi risulta impossibile da parte nostra conoscerlo.

Parimenti, Kant ritiene che la tradizionale cosmologia razionale, secondo cui l'idea di mondo indica la totalità dei fenomeni cosmici, non è un sapere fondato. Infatti, poiché l'insieme di tutte le esperienze non è esso stesso un'esperienza - in quanto noi possiamo sperimentare o questo o quel fenomeno, ma mai la serie completa di tutti i fenomeni - l'idea stessa di mondo, inteso come totalità dei fenomeni esterni, è al di là di ogni possibile esperienza umana. Kant afferma poi che quando i metafisici pretendono di interpretare il mondo nella sua globalità cadono inevitabilmente nei reticolati logici delle antinomie (lett. “contrasto di leggi”), veri “conflitti della ragione con se stessa”, che si concretizzano in quattro coppie di proposizioni contraddittorie, dove l’una (tesi) afferma e l’altra (antitesi) nega, tutte ugualmente dimostrabili, ma tra le quali non è possibile decidere quale sia vera oppure falsa, mancando la verifica dell’esperienza corrispondente.

Tali antinomie, relative appunto alla cosmologia, sono: 1] Il mondo è limitato nel tempo e nello spazio. Il mondo è illimitato nel tempo e nello spazio. 2] Nel mondo tutto è semplice. Nel mondo tutto è composto. 3] Il divenire è libero. Il divenire è necessario. 4] Esiste un essere necessario. Non esiste nulla di necessario. Secondo Kant, tali antinomie, che dimostrano l’illegittimità dell’idea del mondo, sono dovute a un’indebita applicazione delle categorie dell’intelletto alla realtà noumenica, dove non ha senso proporre giudizi scientifici.

12. La dialettica trascendentale: la critica della teologia razionale (a proposito delle prove dell’esistenza di Dio) e la funzione regolativa delle tre idee (anima, mondo e Dio)

Anche la stessa teologia razionale, che ha come proprio oggetto la dimostrazione razionale dell'esistenza di Dio, risulta per Kant un sapere non sufficientemente fondato, e dunque inaccettabile. Kant raggruppa le molteplici prove dell'esistenza di Dio, quali sono state proposte da una più che millenaria tradizione filosofica, in tre classi: la prova ontologica; la prova cosmologica; la prova fisico‑teleologica (o fisico-finalistica).

La prova ontologica, che per la prima volta è stata proposta da Anselmo d'Aosta nel suo Proslogion, ma che Kant assume nella forma datale da Cartesio, ricava l'esistenza di Dio dal concetto stesso di Dio, inteso come Essere perfettissimo, che, in quanto tale, non può mancare della prima delle perfezioni, vale a dire dell'esistenza. Kant distingue tra piano mentale e piano reale, e afferma che non è possibile "saltare" dal piano della possibilità logica a quello della realtà ontologica, in quanto l'esistenza è qualcosa che possiamo constatare soltanto attraverso l'esperienza, e non dedurre con un procedimento puramente intellettivo. A tale proposito, Kant offre il seguente esempio: la differenza fra cento tàlleri reali e cento tàlleri pensati non risiede nella serie delle loro proprietà concettuali che sono identiche, ma nel fatto che gli uni esistono e gli altri no e l’esistenza ci è data solo tramite l’esperienza. Di conseguenza, la prova ontologica risulta irrimediabilmente erronea.

La prova cosmologica, celebre soprattutto attraverso le prove di Tommaso d'Aquino, parte dall'esperienza di ciò che è contingente, ossia di ciò che può essere come pure può non essere, e, utilizzando il principio di causa-effetto, giunge ad affermare l'esistenza di qualcosa che è necessario, cioè di un Essere identificato con Dio: “Se qualcosa esiste, deve anche esistere un essere assolutamente necessario; poiché io stesso, almeno, esisto, deve esistere un essere assolutamente necessario”.

Secondo Kant, il primo errore presente in questo argomento consiste nell'utilizzare in modo illegittimo il principio di causalità, in quanto tale principio è una regola con la quale stabiliamo dei rapporti tra i vari fenomeni e non può pertanto servire a collegare tali fenomeni con qualcosa di transfenomenico.

Il secondo errore di questa prova consiste nel ricadere nella prova ontologica: se anche potessimo giungere al concetto di un Essere necessario, causa del contingente, dovremmo ancora dimostrarne l’esistenza reale. E ciò, come si è già visto nella critica alla prova ontologica, è impossibile.

La prova fisico‑teleologica consiste nel dimostrare come l'ordine, l'armonia e la finalità presenti nell'universo richiedano necessariamente una Mente ordinatrice di tutte le cose, identificata con il Dio creatore, perfetto, infinito. Kant rileva come questa prova risulta essere la più convincente per l’uomo di buon senso: essa è stata accolta dagli stessi filosofi illuministi, secondo i quali “se c'è un orologio deve necessariamente esserci un Orologiaio”. Nondimeno, questa prova contiene una serie di passaggi logici errati. Infatti, se potessimo risalire a Dio quale supremo architetto del mondo, non avremmo ancora dimostrato che esso coincide con l’Essere necessario. In questo modo la prova fisico-teleologica ricadrebbe nella prova cosmologica, la quale a sua volta si fonda su quella ontologica.

In definitiva, Kant fonda la critica alle prove dell’esistenza di Dio sulla sua dottrina gnoseologica: la conoscenza scientifica e rigorosa non può prescindere dall’esperienza e non può mai varcarne i limiti. Tuttavia, la posizione di Kant non coincide con l’ateismo. Egli intende negare la possibilità di dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, non la sua esistenza in generale. Per questo egli afferma: “Ho dovuto sopprimere il sapere per fare posto alla fede”.

Una volta dimostrato come le tre pretese scienze (psicologia, cosmologia e teologia razionali) non possano in alcun modo costituire la metafisica, Kant sostiene che le tre idee di anima, mondo e Dio, pur non avendo alcuno spessore ontologico, hanno una loro innegabile utilità, in quanto esse sono delle regole che spingono l'uomo ad allargare la propria esperienza, e soprattutto ad interpretarla in modo unitario. L' idea di anima spinge a collegare tutti i fenomeni del senso interno e a vederli o a considerarli sempre più uniti tra di loro come se fossero manifestazioni di un'unica sostanza semplice (=l'anima). L' idea di mondo conduce l'uomo a passare da un fenomeno all'altro, a vederne i rapporti causali che li producono, come se tutti i fenomeni del mondo costituissero un unico mondo. La idea di Dio, infine, propone all’uomo nel suo conoscere, frutto dell'intera sua esperienza, un ideale di perfetta sistematicità, che egli non raggiungerà mai, ma che continuamente lo muoverà in questa sua incessante ricerca, proprio come se tutto ciò che esiste dipendesse da un unico Dio, che è il Creatore e la Perfezione assoluta. In sintesi, le tre idee della ragione non hanno valore costitutivo, bensì regolativo, valgono come principi euristici che non ampliano la nostra conoscenza, ma permettono di ordinarla.



Cerca nel blog